Non ho più avuto la voglia, il coraggio, la decenza, la rabbia, l'autorità e tutte quelle parole intercambiabili che si mettono davanti al il guardarti in faccia ed ho capito che non riesco a tenere lo sguardo fisso nel tuo sguardo e alterno occhiate con naturalezza ritmica guardandomi intorno in modo sensato, facendo finta che queste deviazioni siano dei miei vezzi o addirittura dei tic. Facendo finta perché, insomma, potresti forse non riuscire a sostenere il mio sguardo ma non certo per il contrario. L'ho pensato, cеrto, ho pensato di esserе io quello che non riesce ma in realtà è solo che non voglio essere io lo spartiacque delle disparità. Mi fanno schifo tutti quei detti spiccioli che sento in giro, sul sopraffare l'altra persona, che sono formulati male, ma male in un modo inqualificabile tipo che quando segui questi detti e riesci a dominare gli altri poi che fai? Ti tocca tenere quella forza tutta la restante vita tua, facendo la persona che diventi, facendo quello che domina gli altri perché lo hanno detto i detti, perché si dice, perché il richiamo della vita ti dice qualcosa di simile a "segui quel richiamo della vita". Oppure non ti guardo troppo fisso perché potresti pensare che qualcuno che ti guarda un po' più di tanto sta cercando in te qualcosa, sta pensando che non è tutto lì, mentre tu sai, grazie ai detti, al già ritratto richiamo della vita che: cosa vuoi vedere? È tutto qui, non c'è altro di diverso rispetto a quel che c'è. Boh, sarà così? Ma allora come mai alla fine ti sposti verso i monti e ci abiti? Hai fatto le valigie con l'intento di spostarti, di abbandonare città invivibili, assieme a miliardi di altri che dei detti e degli effetti radioattivi di quel dire non riuscivano più a stare con. E allora migrazione, decentramento e tutto quello che i detti non insegnano e nemmeno io insegno ma pratico. In pochi mesi villaggi di montagna che diventan formicari, il richiamo della vita, vieni a stare a bordo, precipizio, vuole dire la sua, la dice e non smette mai di dirla. Quando mi chiede di insegnargli come faccio io, gli rispondo "armonia". Il richiamo dice "tutti insieme", io ribatto "a che distanza?", il richiamo dice "partecipazione, io dico "coi miei tempi, grazie", il richiamo dice "no, è necessario subito". E allora questa volta sostieni questo sguardo mio più a lungo che puoi e scopro che non era per non alimentare il sopraffarsi, ma la mia piccola paura di scoprire che il richiamo della vita non capisce niente e non è nemmeno vita e non è nemmeno scontro, è solo un personaggio non giocante, un arredamento umano pieno di umanità che viene traslocato da un paio di gambe. Eh sì, sono io che devo andarmene, ma scopro di non esserne intristito perché sono io quello che immancabilmente si è sempre spostato
Mentre scendo dai monti so benissimo che li rivedrò, sono un misto di Tuco Ramirez, Lucia Mondella, Cosimo Piovasco di Rondò e quella persona che hai visto una volta sola in vita tua e nemmeno te la ricordi. Voglio proprio vedere come il richiamo della vita abbandona la sua nicchia biologica preferita, quella che si è scavato per migliaia di anni, che ha decantato, difeso e sostenuto con dolcezza e tracotanza fino a che non ha visto che la zona di comfort stava uccidendo lui e disastrando essi. La città. E mi avvicino a piedi col mio carretto e la mia gerla e più le costruzioni umane si infittiscono più si fa schiacciante e anfitrione il richiamo della morte. La putrefazione dello spazio vuoto, il richiamo della vita con le sue frasi incalcolabili, i suoi detti di origine mondiale, le sue consuetudini incrollabili. Il richiamo della vita è scappato in tutta fretta e si è lasciato dietro tutto ciò che non rientra. Non impara mai. Dovrei smettere di chiamarlo "il richiamo della vita" perché così non è, ma d'altronde io sono qui, avevo sempre pensato che sarei morto sui monti abbracciato a un'armonia che va di pari passo col distacco, che va di pari passo con la volontà, che va di pari passo con tutto quanto e alla fine basta che l'umano smetta di rallentare il flusso coi suoi "eh no, ma così no!"
Ma torniamo a noi. Siamo rimasti io, una città vuota di persone e una stratificazione di sensazioni che posso permettermi di non definire, o definire come voglio, o definire quando voglio mentre raccolgo e catalogo la spazzatura, gli oggetti ancora funzionanti e quelli che magari non funzionano ma sono delle buone fusioni di metalli risuonanti se percossi, che possono servire per via della loro energia statica. E giorno dopo giorno raccolgo e riordino come quei silenziosi umani che piantano alberi di nascosto e non è vita, che recuperano un bosco. L'abitudine a portare pesi a spalle su per le montagne torna molto utile quando l'obiettivo è trasformare i palazzi in dei silos di stoccaggio divisi per materiale: un quartiere solo di bottiglie di plastica, uno di bottiglie in vetro, uno di cocci non identificabili, uno di polistirolo. Meglio non riunire l'olio minerale tutto nello stesso luogo perché potrebbe tracimare nelle falde acquifere e non si può smaltire. Le batterie al litio esaurite: tutte nelle piscine. Qui ci vorrebbero dei chimici che mi aiutino, ma sono solo, quindi leggo i manuali per capire come rendere neutrali i solventi vari, sperando che questi cittadini improvvisatisi montanari riescano a non contaminare torrenti, fiumi e canali a monte, mandando a monte il mio andarmene. Ma cosa mi aspetto? La speranza offusca l'osservazione e qui si cambia idea così velocemente da non percepire se sono io, se sto pensando o altro, e la pratica mi ricongiunge con l'astratto